... non faccio che trovare motivi per andarmene.
Questa è la crudele situazione di un quasi expat che deve partire.
Crudele perché in fondo nessuno di noi, per quanto triste appaia, vorrebbe lasciare il luogo della propria infanzia. Ancora di più se è una città come Genova, che ha degli emigranti un ricordo vivido e recente.
Ma se ghe penso, dice la canzone di Mario Cappello
E io che parto quasi un secolo dopo non posso che ricordarne le parole, impresse nella mente come un inno nazionale e ricordare la nostalgia che avrò quando sarò lontano, nel tempo e nello spazio dalla mia terra.
Eppure non posso restare, un vagito mi ricorda che il futuro non è mio.
E ascolto Creûza de mä di Fabrizio De Andrè e mi commuovo, come mai ho fatto prima, perché in fondo il ricordo di una bambina saltellante du una mattonata rossa, mai mi è parso così definitivo.
E penso alla Genova degli anni sessanta, al porto, all'economia marittima, vestigia di un passato imponente in cui i Genovesi dominavano i commerci e il mare.
Penso alla Genova del diciottesimo secolo e alla sua grande intraprendenza finanziaria
Penso a tutto quello che è stato e poi guardo il mondo di oggi.
Sul ciglio della quarta rivoluzione industriale, il mondo si organizza per rivoluzionare tutti i paradigmi socio-culturali, per abbandonare quell'idea di Stato che il Rinascimento ci ha regalato, per abbandonare la civiltà delle nazioni e portarci in un sistema interconnesso di relazioni orizzontali, un'infinita interazione peer to peer, dove ogni aspetto della società sarà diverso da quelle gerarchie formali che hanno costellato la storia dell'uomo dagli albori.
E' l'era delle macchine, della loro intelligenza artificiale, che non appare diversa dalla nostra intelligenza naturale, se non nel potenziale infinito e nella loro infinita capacità di relazione.
Dove l'uomo ha fallito, riusciranno le macchine, dove l'individuo cicala ha consumato le proprie risorse, le macchine formica porranno le basi per un futuro sostenibile.
E mi ritrovo su una scogliera, dinnanzi al Golfo di Genova, ad osservare un futuro remoto e visionario in cerca di segnali nel presente.
Nulla di tutto questo esiste nella mia città.
In questa Genova in cui la gente insiste a voler mandare fax, in cui i documenti ufficiali vengono stampati su fogli enormi da stampanti ad aghi dell'altro secolo, in una città le cui infrastrutture sono vecchie e logore, dove la mobilità è un lusso per quei pochi che potevano permettersi un'automobile nei primi anni del novecento;
In una Italia in cui quasi nessuno parla adeguatamente una lingua straniera, anche se in un'Europa in cui una buona parte degli abitanti ne parla due, in una nazione che pensa al proprio futuro nel manifatturiero e non ha capito che le macchine non hanno bisogno di oggetti totemici come ne ha bisogno l'uomo e men che meno hanno bisogno di un dio o della politica.
In questo contesto culturale, guardo il mare, il mio mare, e cerco un motivo per restare, trovando soltanto una folla di motivi per andarmene.
Tornerò ancora, a vedere Boccadasse credendo che lì ci sia la mia creûza de mä,
Tornerò per andare a Righi a guardare la città dall'alto e a ritrovare con lo sguardo tutto ciò che mi è stato più caro,
Tornerò...
Ma è veramente giunto il momento di andare e scrivere un futuro che sia all'altezza dell'amore che provo per la mia famiglia.
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