domenica 28 dicembre 2014

Un tempo il Piave mormorava



era il 24 maggio del 1915 in cui i Figli della Nazione andavano in guerra contro l'invasore austriaco. Oggi scacciamo allo stesso modo i turisti stranieri, austriaci inclusi.

Da quel tetro 24 maggio il mondo è cambiato.

Oggi gli stranieri sono una risorsa planetaria per un mercato del turismo che ha assunto dimensioni inimmaginabili per i nostri nonni, da quegli italiani che andarono in Africa a costruire strade e a sfruttare risorse naturali per arricchire il mercato interno ed elevare la qualità della vita delle loro famiglie.

Fino alla metà del novecento lo straniero era invasore o schiavo, ma ormai è cambiato tutto.

Se un ricco senegalese, richiede un visto, prende l'aereo e decide di scendere all'Hilton di una qualsiasi città italiana, dove si aggira poi indossando abiti Armani, nessuno si sogna di definirlo un "extracomunitario".

Viene accolto nei migliori ristoranti, accede ai musei, viene consigliato dalle operatrici turistiche nella sua lingua madre. Viene considerato un turista.

Se questo turista è un americano ancor meglio, perché "Americano" fa pensare agli operatori di potergli sottrarre quanto più denaro possibile, Americano è lo sprovveduto facilone che paga e non si lamenta... ma che poi non torna più.

E poi i turisti arrivano chez nous con pretese assurde. Venire qui quando è festa!

«Come si può pensare di andare "a casa d'altri" per farli lavorare durante le feste comandate?
Non possono tornare in orario lavorativo consono, se possibile escludendo il lunedì mattina e il venerdì pomeriggio che sono troppo vicini al fine settimana? »

Pompei chiude a Natale per la mancanza dei fondi necessari a pagare lo straordinario festivo ai dipendenti.
Festivo?
Perché festivo?

Nel turismo i periodi tradizionali di festa sono quelli di lavoro ordinario. Non ho mai sentito un operatore turistico considerare la domenica in alta stagione come festiva.
E a dire la verità neppure la considerano festiva coloro che semplicemente vivono in posti di villeggiatura.

L'Italia possiede circa il 60% delle bellezze artistiche del mondo intero, eppure in Italia gli operatori dell'indotto del turismo, i privati che hanno a che fare con tali bellezze, si barcamenano tentando di offrire qualcosa di diverso dalle spiagge urbanizzate, affatto concorrenziali se paragonate a quelle tropicali.
Perché mai un turista decide di venire in Italia se tutto quello che trova di fruibile non è meglio di quello che trova a metà prezzo in giro per il mondo?

Perché glielo dicono gli Italiani? E chi sono?
Sono i politici nazionali, il ministro Franceschini, quello che ha "inventato" l'art-bonus.
Si definisce "Art-bonus" un sistema di sgravi fiscali, una sorta di mecenatismo (descritto qui; La regressione e il mecenatismo) finalizzato al finanziamento del Ministero, un diverso modo per farsi mantenere dai privati senza passare attraverso la fiscalità ordinaria.
Il decreto prevede insomma un tax credit a favore di chi fa donazioni che siano utili a finanziare la gestione pubblica dei beni culturali.

Considerata la malagestione (sovente malversazione) questo sistema di defiscalizzazione è una sorta di distrazione delle tasse in favore della fallimentare attività ministeriale di gestione dei beni culturali.
Come si può pensare che maggiorni entrate risolvano i problemi originati da amministrazioni improbabili e popolate da incompetenti e ignoranti?

E' il solito, ricorrente problema di questo Paese.Ci sono troppi idioti in posti chiave.

Cosa aspettiamo a favorire quegli imprenditori che sono realmente in grado di rilanciare il turismo e che chiedono soltanto di poter guadagnare grazie alle proprie capacità?

E così, mentre vessiamo i turisti chiedendo loro di comportarsi da stranieri, mentre creiamo complessi sistemi di leve fiscali pensando che ottenere più soldi renderà il sistema più efficiente (secondo non so quale teoria economica) e riportando questo paese a prima dell'età dei lumi, mentre i musei restano chiusi nei giorni festivi e vuoti durante la settimana,

il Piave mormora.

Ricorda il sangue versato da un milione e mezzo di patrioti un secolo fa; sangue versato per scacciare lo straniero ostile e dare vita a una progenie di italiani presuntuosi, chiusi nei propri confini, ostili e invidiosi verso chiunque tenti di elevarsi  fino a preferire morire d'inedia pur di non spostarsi. Fermi da un secolo e sempre più ignorati dal mondo.

lunedì 22 dicembre 2014

L'autoregalo e la morte del Natale

...perché farsi un regalo da soli può significare essere egoisti o essere soli.

Treccani alla voce - regalo
s. m. [prob. dallo spagn. regalo, riferito anticam. ai doni dei sudditi al re]. – L’atto di regalare, il fatto di venire regalato; l’oggetto, la cosa che si regala: dare, ricevere qualcosa in regalo; dare, offrire, portare, porgere...
L'autoregalo non esiste e lo facciamo esistere solo per dare un nome più festoso alla normale pratica, a volte patologica, di comprare oggetti per noi stessi.

Dov'è finita la generosità alla base dell'atto di donare?

Seppure donare sia un atto rituale, è altresì vero che quando si compiono azioni, le intenzioni diventano secondarie e insindacabili. Così seppure interessato, l'atto di donare resta vivido nelle percezioni sensoriali. Ricevere un dono dà sempre piacere, come spesso ne dà acquistarlo o meglio prepararlo.

La monetizzazione dei doni, dovuta principalmente alla commercializzazione dei beni, ha progressivamente trasformato il dono nel corrispettivo economico che serve ad acquistarlo.


Si scambiano regali non graditi, si regalano addirittura buoni spesa e infine ci si fanno autodoni.

C'è ancora qualcuno in grado di farci un regalo gradito? Di prendersi il rischio di sbagliare regalo?

Babbo Natale è stato sostituito dall'immensità dell'ego moderno e il dono è diventato un atto riflessivo, quasi come se noi e soltanto noi, potessimo avere l'onore di fare regali a noi stessi.

Sublimiamo così la solitudine e l'egoismo moderni, la civiltà in cui l'oggetto acquista più importanza dell'atto, dove l'io supera di gran lunga il noi.

Il Dizionario Treccani sbaglia?

Forse che il regalo è da definirsi:
s.m. bene che viene acquistato per sé o per altri in occasione di ricorrenze o eventi rituali a carattere sociale
Davvero possiamo pensare che l'autodono sia più che una divisione schizofrenica della psiche con cui si compie un atto verso noi stessi alla stregua di quello che gli altri farebbero per noi?

E' davvero questo il senso del Natale, del compleanno, delle occasioni in cui si scambiano doni?

Eppure c'è ancora al mondo chi compra un oggetto perché pensa che possa essere gradito, chi crede a Babbo Natale che premia i bambini, chi fa acquisti personalizzati e anzi dedica tempo a farlo sperando che la lieta sorpresa rallgri il destinatario dei doni.

C'è chi pensa che Natale sia regalare sorrisi agli altri e di quelli degli altri nutrire il proprio ego. Chi pensa insomma che nonostante tutto, qualche volta, esista ancora un noi a questo mondo.

giovedì 4 dicembre 2014

La politica del nonsenso

... di certo non viene inventata oggi.

affonda le proprie radici, per ciò che riguarda la cultura occidentale, nei dettami della religione cristiana allorché affermatasi attraverso l'apostolato in epoca romana.


L'esclusività della posizione sociale garantiva a chi esercitava il potere, un privilegio culturale e patrimoniale da renderlo inamovibile. Ad un tratto, al punto di rottura tra privilegi e produzione della ricchezza, irrompe la democrazia liberale.

Le persone o meglio alcuni fra loro, iniziano a pensare che l'unione possa realmente fare la forza.

Nel giro di un paio di secoli le rivolte diventano popolari, nascono le repubbliche rivoluzionarie, nasce il socialistmo, il comunismo, il marxismo, nascono i figli dei fiori che però appassiscono in fretta, almeno qui da noi.

Parallelamente, nelle gerarchie aristocratiche e borghesi si cerca di arginare l'ascesa di queste idee democratiche.
Si contengono dapprima con la repressione interna, poi con la guerra, poi con l'embargo e si sconfiggono semplicemente con il consumismo.

Ad un tratto, nel continuum spazio temporale, per niente continuo come sappiamo, arriva Albert Einstein a cui viene spesso attribuito un aforisma: «Follia è fare sempre la stessa cosa e aspettarsi risultati diversi.» Il quando è quantisticamente irrilevante, ma resta il fatto che nessuno lo ascolta.

La politica si rende democratica. Lo spartiacque della Seconda guerra mondiale lascia spazio alla militanza, al potere popolare, alla regressione apparente degli aristocratici e dei borghesi.

Il novecento appare come il secolo del popolo.

Chi deteneva il potere ai tempi delle rivoluzioni liberali si limita a staccare i biglietti e godere dello spettacolo.

La Politica, la Legge e l'Economia diventano il palcoscenico preferito dai rampolli delle famiglie bene, quasi come furono la carriera militare e quella religiosa nel medioevo.
I figli dei notabili occupano posti di rilievo nell'imprenditoria borghese e nella gestione della res publica; da lì controllano gli eccessi della passione popolare.

Si afferma così la politica del nonsenso.

Più soldi finiscono nelle tasche dei ceti inferiori, maggiore è il volume di denaro che ritorna all'origine. Più denaro si produce per assicurare il benessere della popolazione, più denaro si spende per comprare beni e servizi, per assicurarsi privilegi.
L'unica opportunità è svettare, vincere, superare gli altri e come un salmone che risale la corrente consumarsi fino alla morte nel tentativo di emergere.

Il "ceto privilegiato" smette di contenere i privilegi degli "inferiori", cresce il benessere popolare, ma allo stesso tempo cresce l'avidità di privilegi.
Da questo punto di vista i conflitti di classe del novecento sono stati una palestra interessante, risolta soltanto con la globalizzazione. Il nazionalismo che forniva grandi opportunità economiche nel XIX secolo è sublimato in globalizzazione.
La concorrenza globale tra gli imprenditori non è stata da meno del disaccordo, o meglio del disinteresse, di chi avrebbe bisogno di aggregarsi per contare qualcosa e invece è rimasto a guardare.

Ironicamente, l'allargamento della piattaforma comunicativa non ha fatto altro che separare quei gruppi di persone che avrebbero avuto maggior interesse ad unirsi.

E ancora una volta la democrazia si è dimostrata un sistema fallace.

Così, mentre la cultura si trasforma grazie alla rivoluzione digitale, le persone restano ancorate alla politica nel nonsenso.
Intrappolate in infiniti livelli di associazionismo e rappresentanza che filtrano le opportunità, che rallentano l'ascesa, che complicano ciò che in fondo sarebbe semplice.

Paghiamo per votare alle primarie di partito, per eleggere un candidato che è stato selezionato da una élite intellettuale per essere corrotto nel migliore dei casi da imprenditori d'élite, nel peggiore da criminali.
Votiamo per contare qualcosa, nell'idea che l'unione faccia la forza e produca un risultato positivo e personale per il singolo.

Quanto ci vorrà ancora perché la teoria dei giochi di Nash possa essere compresa da tutti e ci convinca che l'unione fa veramente la forza soltanto se pensiamo anche agli altri?

Nel frattempo godiamoci politici posticci, che ripetono ossessivamente ciò che vogliono far diventare reale, che ci impongono il mantra della trasparenza e della legalità per poi propinarci sempre il solito gioco delle tre carte, che tutti conosciamo ma a cui non sappiamo resistere.

Godiamoci la stupidità del nonsenso, del resto se il "salmone" conoscesse il senso della vita non si affannerebbe poi molto sulla corda tesagli da Nietzsche.

venerdì 21 novembre 2014

Smart cosa?

Perché sembra che di smart, intelligente, ci sia sempre meno al mondo. Da tempo rifletto, come tanti, sulle implicazioni di questa rivoluzione social.

Le riflessioni mi portano a riprendere spesso le teorie di Alexis de Tocqueville circa la società di massa, ma nonostante la pessimistica visione dell'intellettuale francese, a rivederla in peggio.
La rivoluzione informatica si sta volgendo ormai all'utilizzatore finale. Non è più una materia per smanettoni, ormai ogni aspetto della nostra vita viene riassunto in una "app" già chiamato programma o applicazione informatica.

Tutto è app, tutto è facile, perché si sa che la persona normalmente pigra vuole soluzioni comode. E così comodamente, dopo aver ceduto sovranità allo stato, mi rifaccio come spesso faccio a John Locke quale padre fondatore dello stato moderno, cede informazioni riservate, le più intime in assoluto, all'apparato informatico.

Siamo schiavi del device

per usare un termine esotico molto in voga fra i patiti di marketing e relazioni sociali. Per mezzo di questo attrezzo elettronico, possiamo svolgere facilmente operazioni che richiederebbero altrimenti coordinazione, maestria, pratica, fatica, tempo.

La rivoluzione smart è diventare sempre più pigri, togliersi perfino il piacere di andare a fare shopping. Diventare consumatori neurali, comprare tonnellate di oggetti senza neppure doversi alzare dal letto, per poi mostrarne foto sui social network e discuterne in chat o su skype.

Eppure fuori c'è un mondo, lo stesso mondo in cui fatichiamo tanto a creare un'immagine di noi che raramente corrisponde al vero, ma che corrisponde spesso a quella che potremmo avere se lavorassimo duramente per costruirla.
Alla stessa maniera realizziamo dei falsi noi sui social network, utilizziamo foto false o ritoccate, mostriamo i nostri lati migliori, studiamo attentamente cosa scrivere, e per fare questo usiamo uno strumento informatico.

Così accade che lo strumento che usiamo prende il controllo.


Esistono ditte commerciali che per poche centinaia di euro offrono l'accesso alle e-mail di migliaia o milioni di soggetti ignari, persone che hanno probabilmente dato il consenso informato per l'assicurazione auto o per la raccolta punti del supermercato oppure per l'accesso a facebook.

Persone che utilizzano lo smartphone continuamente, conservando le foto non ritoccate, i propri dati sensibili, la propria corrispondenza, ogni tipo di informazione personale nella convinzione di averne il controllo.
Molti hanno sentito parlare della vulnerabilità di Windows, pochi si curano di conoscere la ben maggiore vulnerabilità di Android e Apple.

La semplificazione passa per la rinuncia.

Per semplificare l'uso dei computer, per permettere l'uso di un palmare a qualsiasi essere dotato di un dito e capacità cognitive insufficienti a gestire un menu di scelta, si è deciso di sacrificare la privacy.
Oggi è sufficiente premere il dito indice in menu a scelta limitata, come fanno i bambini in età pre-scolare, e proseguire in un percorso di briciole di pane tracciato da qualche Pifferaio magico che neppure conosceremo mai, il cui intento è condurci sull'orlo di qualche dirupo digitale utilizzando le informazioni lasciate incustodite all'interno del nostro device.

E' finità l'epoca della riservatezza, è caduto ogni barlume di privacy, così come sono diventate superflue l'intelligenza e la capacità di adattamento ambientale che avevamo in quanto animali.

E in questo mondo di facciate e traffico di dati fittizi, per essere diversi e non lasciare spazio al ricatto sociale, non ci resta che un'ultima residuale alternativa; essere onesti.

giovedì 6 novembre 2014

Genova come Detroit, un parallelo pericoloso

Alle volte vengono in testa strane idee. Appaiono deboli nessi fra i concetti, si trovano convergenze curiose e si passa un po' di tempo a fare ricerca e poi a scrivere, pensando che ci siano posti nel mondo così distanti, ma per certi versi così vicini.

Detroit
La città di Detroit nasce nel Settecento, durante la colonizzazione francese, come stazione commerciale. La vittoria britannica nella guerra dei sette anni cancellò la presenza francese dal Nord America e avviò quel processo separatista che nel 1776 vide la nascita degli Stati Uniti d'America. Lo stato del Michigan, e con esso la nascente città di Detroit, divenne autonomo nel 1805 e nel gennaio del 1837 entrò, come ventiseiesimo stato, a far parte dell'Unione.
Nel 1840 la popolazione della città di Detroit non raggiungeva i diecimila abitanti, seppure la progressione demografica fu costante per tutto il XIX secolo.

La fortuna della città è legata al nome di Henry Ford, alla suo modello T e alla produzione in serie. Grazie alle idee rivoluzionarie di Ford, ma soprattutto a quelle dell'ingegnere Frederick Taylor, la rivoluzione industriale di fine ottocento divenne per la capitale del Michigan un fattore di crescita esponenziale.
Nel 1910 la popolazione cittadina era di 465,776 abitanti, nel 1920 era già raddoppiata e nel decennio successivo superava quota 1.500.000, per raggiungere l'apice nel momento di massimo splendore dell'industria automobilistica americana. Nel 1950 a Detroit vivevano 1.849.568 persone, gran parte impiegate nell'indotto dell'industria automobilistica e nei servizi.

Genova
La storia di Genova è profondamente diversa. Mentre Detroit non era che una roccaforte in un territorio inesplorato, la Superba era una delle potenze commerciali più floride del Seicento.
La crisi dei commerci nel Mediterraneo, ciò che fece la fortuna della città americana, segnarono la fine del dominio genovese. Dopo la conquista napoleonica e l'annessione al Regno di Sardegna, Genova entrò a far parte del Regno d'Italia nel 1861. In quell'anno la popolazione censita era di 242.447 unità e, grazie al processo di industrializzazione delle città italiane, nel 1911 la popolazione genovese raggiunse i 465.496 abitanti, curiosamente pari a quella quella della Detroit in cui l'industria stava per esplodere.
La situazione geopolitica dell'Europa tra le due guerre mondiali rallentò molto il progresso demografico di Genova. La crescita riprese dopo la Seconda guerra mondiale, l'industria metallurgica divenne fiorente e la Città costituì con Torino e Milano il famoso triangolo industriale.
La popolazione cittadina raggiunse il proprio apice nel 1965 con la vertiginosa cifra di 848.121 residenti.

Convergenza
Se la storia demografica delle due città appare profondamente diversa, sia per l'area geografica, sia per la tradizione economica, sia per il contesto sociale, è innegabile che l'industrializzazione del Novecento sia stata centrale nello sviluppo di queste città.
Entrambe le città hanno beneficiato di ripetuti flussi migratori, per Detroit prima europei, poi asiatici e infine di neri dagli stati del Sud, mentre per Genova dapprima la migrazione dalle campagne e successivamente dal Meridione.
Le proporzioni sono chiaramente diverse, i flussi americani furono più copiosi e più veloci, favoriti certamente da una cultura liberale e una minore densità abitativa regionale, ma gli effetti sul territorio, soprattutto sulle infrastrutture sono comparabili in entrambe le città.

Crescita Edilizia
L'enorme richiesta di immobili data dall'aumento della popolazione, ha stimolato per decenni una crescita pressoché incontrollabile del mercato immobiliare.
Seppure con tipologie architettoniche diverse, in America sono tipiche le case monofamiliari mentre in Italia si tende a vivere in condominio, a Detroit come a Genova sono nati quartieri residenziali a tempo di record, affinché fornissero spazi abitativi ai nuovi cittadini. A Genova, tra il 1961 e il 1981 il patrimonio abitativo aumenta di quasi 60.000 abitazioni, per l’86% costruite negli anni Sessanta. Tutti questi edifici continuano ad esistere tutt'oggi, anche se il flusso in entrata si è trasformato in un flusso in uscita.

Deriva economica
L'alta specializzazione di Detroit e di Genova, vocate entrambe all'industria pesante ne hanno fatto due simboli del Novecento.
Se nel momento della crescita i redditi pro capite degli abitanti erano tra i più alti delle rispettive nazioni, la crescita del Terzo mondo, e la conseguente globalizzazione economica hanno lentamente impoverito questi centri, che di fatto non hanno mai attuato politiche di recupero.
Mentre la Motor City iniziava a veder svanire l'industria automobilistica, Genova produceva ancora acciaio e case. Qualche decennio dopo però anche La Superba ha iniziato a fare i conti con il calo della produzione. Il porto, seppure rinnovato risente sempre più della mancanza di collegamenti con il resto del continente e il calo demografico si fa rilevante.

Calo Demografico
Detroit ha iniziato a patire un calo della popolazione a partire dagli anni cinquanta, dopo trent'anni di crescita impressionante ha iniziato un lento ed inesorabile declino, dal 1950 Detroit ha perso il 62% della popolazione raggiungendo i 713.777 abitanti nel 2010. Il calo demografico ed economico della città, incrementato nel periodo tra il 2000 e il 2010 con una perdita del 25%, è culminato infine nel default del luglio 2013. Oggi Detroit conta 78.000 edifici abbandonati, oltre 100.000 l'intero stato del Michigan.
Genova vive una situazione simile, seppure traslata nel tempo. La crescita è stata più lenta, ma ciò non toglie che dalla fine degli anni '70 il calo demografico è inesorabile, per le stesse cause economiche che contribuirono al declino della Motor City americana.
In una simile situazione a risentirne sono sempre i servizi locali. Le amministrazioni pubbliche, in quanto emanazioni della burocrazia, sono lente nel recepire il cambiamento e non attuano tempestivamente la soluzioni necessarie alla correzione, anche perché le politiche
di riordino dei conti pubblici sono normalmente penalizzanti in termini elettorali.
In situazione di crisi, non solo le imprese, ma anche i cittadini decidono ad un certo punto di ricostruirsi una vita altrove e questo rende improvvisamente insostenibili le spese di gestione di città concepite per un numero notevolmente più grande di abitanti.

Crollo del mercato immobiliare
Detroit ha certamente risentito in maniera prepotente della propria crisi. Nel grafico allegato si può vedere l'andamento del mercato immobiliare della città americana. Si può notare che la variazione dei prezzi è strettamente correlata al numero di abitanti. Più veloce è il calo demografico, più veloce sarà il calo dei prezzi.
Genova vive una situazione di disagio simile a Detroit.
La crisi immobiliare attanaglia tutto il Paese e per la Superba, priva al momento di prospettive economiche di grande rilievo, il dato della crisi immobiliare potrebbe nascondere un male peggiore; la concreta possibilità che una ripresa del mercato nazionale non sia sufficiente ad arginare la svalutazione del patrimonio locale.
Il grafico accanto riporta l'andamento della richiesta di abitazioni negli ultimi due anni, non è ovviamente positivo ma non ci permette, quando lo paragoniamo a quello nazionale di rilevare eventuali patologie locali.
Resta peraltro il dato allarmante di una popolazione costantemente in calo e di un'economia locale sempre più sofferente.

Il Futuro di Detroit
L'Amministrazione locale di Detroit sotto la guida del sindaco David Bing, ha risposto al default con un piano urbano di ridimensionamento, riducendo la città di un terzo della propria superficie. Ciò è stato possibile creando la Blight Authority, un ente che si occupa della demolizione dei ruderi e del riordino urbano, raggruppando gli abitanti nei quartieri rimasti e destinando le aree deurbanizzate alla realizzazione di fattorie, creando una nuova economia agricola locale, in luogo delle aree abbandonate. Detroit ha reagito al fallimento rendendosi conto della propria condizione, Genova cosa farà?
I recenti eventi del 10 ottobre scorso, l'alluvione che si ripete a distanza di poco tempo, ma ancor prima lo sciopero ad oltranza del trasporto pubblico locale, l'impossibilità o l'incapacità della classe dirigente di gestire il declino economico della città sono emblematici.
Le previsioni demografiche prevedono per Genova una popolazione di circa 400.000 abitanti, che paragonati agli attuali 596.958 significherebbero un calo di circa il 30% della popolazione, perfino maggiore di quello che ha accompagnato il default di Detroit.

Riuscirà Genova dove Detroit ha fallito?
Ci chiediamo oggi se riuscirà Genova a porre in essere una politica di riordino del territorio prima del fallimento, se gli edifici in eccesso possano essere abbattuti prima del crollo inesorabile dato dall'abbandono.. E' necessario per Genova avviare un progetto di decostruzione compatibile con il futuro demografico, senza perdere ulteriore tempo, restano meno di venti anni; vent'anni cruciali per il futuro della Città.

lunedì 3 novembre 2014

I miei primi quasi quarant'anni

Non sono poi così diversi dai primi trentanove e suppongo neppure dai primi quarantuno, se non nella parte marginale che risulta rilevante soltanto dell'immediatezza della celebrazione.

La valutazione però si fa nel complesso, così posso farla senza problemi seppure manchi ancora un giorno o quasi.

Quando iniziai il mio percorso in questa valle di lacrime lo feci contro il fato, giàcché rischiai di morire strangolato alla nascita.
Da quel momento tragico posso dire che è stata tutta discesa ma ripidamente in salita, perché costellata da un paio di altri eventi di quel calibro, qualche volo in moto, qualche commozione cerebrale e tanta, ma tantissima voglia di migliorare me stesso.

Affrontare sfide è quello che credo di aver saputo fare meglio fin'ora.

Il che non coincide assolutamente con la vittoria. Affrontare una sfida significa semplicemente mettersi in gioco con qualcosa che riteniamo più grande di noi. Significa tentare di raggiungere un obiettivo alto, significa non accontentarsi di quello che abbiamo ottenuto o di quello che facilmente possiamo avere.

Il paradosso sociale è che i momenti significativi di una vita sono quelli in cui si cambia. Che ci sia un rituale sociale o meno, il cambiamento è da sempre al centro di vite che tentano disperatamente di conservare lo status quo.
La gente è normalmente terrorizzata dal cambiamento, seppure cerchi di esorcizzarlo attraverso riti di passaggio e definizioni precostituite. Si diventa adulti quando si compiono i diciotto anni, ci si sposa, si fa la prima comunione, si va in pensione e per ognuno di questi momenti si fa una grande festa.

Eppure celebrare il momento di passaggio da una condizione ad un'altra lascia un vuoto enorme.

Impedisce di percepire il continuo divenire, quella sorta di scorrere idraulico del tempo che leviga gli spigoli del nostro essere regalandoci una forma armoniosa in perpetua evoluzione.

Anni fa decisi di non voler sapere chi o cosa fossi, ma di voler disperatamente esserlo. E così divenni figlio, studente, fratello, operaio, scrittore, geometra, sportivo, amante, inventore, eremita, webmaster, allenatore, mecenate, giornalista, consulente, fidanzato e presto padre.

Ma soprattutto, in questo periodo di tempo che varia sempre in maniera marginale, divenni qualcosa che diversamente non avrei potuto essere; felice.

sabato 11 ottobre 2014

Nera come la morte, che butta giù le porte

... sono le parole che Fabrizio De André tributò alla memoria della tragica alluvione del '70(*)

7 ottobre 1970

27 settembre 1992

23 settembre 1993

6 novembre 1994
7 ottobre 2010

4 novembre 2011


10 ottobre 2014

Genova è un chiaro esempio degli effetti del soil sealing(**) e dell'incapacità dell'uomo di piegare la natura nonostante la propria tracotanza positivista.
La crescente frequenza di questi fenomeni è un altro sigillo, quello all'inconsistenza dell'amministrazione locale.
La Superba è ormai ben poca cosa, anche se da qualche tempo ha un bellissimo, costosissimo e mendace logo:


* Dolcenera è una canzone di F. De André che si può ascoltare a questo link
** per approfondimenti vedere S. Settis, Paesaggio Costituzione cemento, Einaudi, 2012

lunedì 29 settembre 2014

Corsi e ricorsi storici

Nulla accadde in Piazza Tienanmen nella primavera del 1989



Nulla accade a Hong Kong nell'autunno del 2014


Non esiste la realtà, ma soltanto l'interpretazione che ne diamo [cit. Nietzsche]. Così il mondo può continuare a vivere in pace; pur in mezzo a continue guerre.

venerdì 5 settembre 2014

L'uomo è morto

 Friedrich Nietzsche scrisse nel suo Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno circa la condizione dell'uomo in un contesto di superamento della soggezione alle religioni e alla creazione di una specie progressivamente superiore.

  «Una volta il peccato contro Dio era il peggior sacrilegio; ma Dio è morto, e perciò sono morti anche questi esseri sacrileghi. Peccare contro la terra, ecco la cosa piú terribile che si può fare oggi; stimare di piú le viscere dell’imperscrutabile che non il senso della terra! [...]
L’uomo è una corda annodata fra l’animale e il Superuomo, una corda tesa sopra un abisso.

Un pericoloso andar dall’altra parte, un pericoloso metà-cammino, un pericoloso guardarsi indietro, un pericoloso rabbrividire e star fermi.
Ciò che v’è di grande nell’uomo, è che egli è un ponte e non uno scopo: ciò che si può amare nell’uomo, è che egli è un passaggio e una caduta.»


In sintesti per il filosofo le condizioni possibili per l'uomo erano il pericoloso incedere e il pericoloso stare fermi, mentre l'unico "premio" era la metamorfosi da bestia in Superuomo.
La profetica scimmia del "kubrikiano" 2001 Odissea nello spazio che impugna l'osso per attaccare il nemico, giunge nello spazio attraverso indefinite generazioni in una sorta di miglioramento continuo.

Ebbene, nel XXI secolo, alla nascita di AI (artificial intelligence), il funambolico essere che percorreva la corda tesa è miseramente caduto in una progressiva diluizione dei valori etici.
Ciò che un tempo elevò la scimmia primordiale, ciò che le aveva permesso di comprendere l'astratto, viaggiare nell'inconsitenza dell'infinito, abbracciare la poesia dell'ignoto, è ormai svanito.

l'Uomo è definitivamente morto.

In questo mondo virtuale in cui ci ha catapultati Nietzsche oltre un secolo fa, non esiste l'attesa; non esiste la conferma, esiste soltanto la ricerca.
La condizione naturale in cui dovremmo esistere è quella di angosciati cercatori di un tesoro ignoto collocato all'interno del nostro cervello, non già di curiosi esploratori della società.

La Società non è che un insieme olistico di atomi definiti e non possiamo pensare che possa resistere se trasformata in un'amalgama di componenti identiche.
Dalla notte dei tempi, ancor prima che l'uomo esistesse, le comunità sono fondate sull'interazione dei singoli, sulle scelte individuali che appaiono oggi sempre più difficili da attuare.

Chi non sa estraniarsi dalla società non ne può essere parte integrante, si limita ad essere un componente.
Chi non sa essere uno non può che essere un pezzo di qualcosa più grande; ma l'uomo è piccolo e individuo,chi non è tale non è un uomo.

Non resta che attendere, affinché una nuova specie di funamboli risalga sulla fune e progredisca in quel cammino periglioso e continuo che rappresenta l'unica soluzione possibile all'oblio, attendere che nuovi uomini dotati di ingegno e iniziativa diano vita ad una nuova umanità.

mercoledì 3 settembre 2014

Guerra


Questo è esattamente ciò che intendo.




"La guerra è la lezione della storia che i popoli non ricordano mai abbastanza" [cit.]

sabato 16 agosto 2014

La regressione e il mecenatismo

ovvero l'opportunità di cancellare la democrazia.

In un paese che guarda al futuro con gli occhi del passato, il mecenatismo appare come una risorsa. Si saluta con gaudio il denaro dei ricchi, il art-bonus proposto da un ministro democratico, e non ci si rende conto che è una soluzione regressiva.

Rinvigorire il contributo dei singoli al bene del Paese non fa che rivalutare le dinamiche clientelari apparentemente disinnescate con la venuta degli Alleati durante la guerra civile.
L'essere stati destinatari dei valori democratici illuministi, giunti a noi con un colpevole ritardo di oltre un secolo, avrebbe dovuto liberare la popolazione italica dall'oppressione monarchica.
Eppure l'aver scritto una costituzione decisamente di sinistra e aver professato i diritti della collettività, ha di fatto lasciato invariati i rapporti personalistici che caratterizzavano l'arretratezza culturale di questa nazione.

A partire dalla fine del settecento, mentre la Francia avviava una rivoluzione democratica, in Germania e Inghilterra si manifestavano intellettuali e filosofi e nascevano i padri del pensiero sociologico, da Smith a Kant a Hegel, da Marx a Weber, da Durkeim a De Tocqueville, da Freud a Jung. Nello stesso momento l'Italia tentava di ottenere il più dal meno, creando una nazione da una provincia.
All'alba del novecento ancora le élite liberali tentavano di ritardare l'evoluzione democratica imperante nel resto d'Europa, finendo per raggiungere l'opposto nel momento in cui il dittatore Benito Mussolini incontrava l'emule, ma democraticamente eletto, Adolf Hitler.

Trascorso il periodo bellico la democrazia giunse nel Paese inattesa. Neppure i comunisti seppero trattarla e si trasformò nel solito neonato senza testa che questo stivale partorisce da qualche secolo in qua.
Eppure questo essere mostruoso sopravvisse a lungo, almeno fino al momento in cui, dopo la firma della Costituzione europea, gli altri confederati si resero conto che la democrazia formale e il debito eccessivo avrebbero ostacolato l'integrazione con quelle culture di democrazia secolarizzata.

Siamo ai giorni nostri, quelli in cui la classe dirigente, l'aristocrazia politica, tenta di preservare interessi e risorse con gli stessi espedienti dei decenni precedenti.
La élite intellettuale di questo paese si dimostra niente meno che un'orda barbarica di gente che arraffa a mani basse, vestitasi di tutto punto con giacche dalle grandi tasche che lasciano soltanto per quelle a righe da carcerato.

Così, nell'intenzione di salvare il Paese, senza tuttavia dover rinunciare al beneficio di disporre dei soldi pubblici, l'acume della montagna politca partorisce un topolino.
Perché non riportare indietro la Nazione ai tempi del Re Sole?
Perché non rivolgersi ai ricchi affinché tutelino il bene pubblico dall'alto della loro magnanimità incentivata dall'esenzione fiscale e per cui i meno fortunati pagheranno il biglietto?
Perché non creare beneficio alle classi abbienti aumentando il peso su quelle più indigenti?
Perché non promulgare una riforma di destra, giacché il governo è peraltro di sinistra?

Ciò che si fa per mantenere il privilegio e l'introito è imbarazzante, ma ancor più imbarazzante è il risalto e l'elogio che è stato dato a questa operazione sintomatica della regressione democratica.
La classe politica che si prostra all'economia per l'interesse personale, il burocrate leccapiedi che ignora la propria posizione nel contesto sociale e pensa al proprio interesse immediato, svendendo la democrazia sovrana.
E allora che liberalismo sia, che torni la monarchia assoluta, anzi che tornino i comuni medievali e le signorie locali che sembrano tuttavia resistere.
Che l'Italia sia ancora una volta, come prima della Guerra di Crimea, "soltanto un'espressione geografica".

venerdì 25 luglio 2014

La Giustizia non si manifesta

... più propriamente non è mai nata, non si è mai incarnata.

Chiariamo le idee sul concetto di giustizia.

La Giustizia non esiste in quanto frutto di leggi che vengono elaborate nel processo politico con l'accordo delle parti.
Se ci fosse un giustizia immota e incontrovertibile non si dovrebbe piegare neppure alle leggi.

E così pensiamo alla droga e all'omicidio.

La droga uccide, uccidere è reato, vendere droga è illegale e lo Stato combatte chi la produce e la commercializza.
Le sigarette uccidono, vendere sigarette è legale e le lobby del tabacco hanno fatto spesso passare, nei decenni passati, il tabacco come una sostanza gradevole che dona vigore e piacere.

La Morale è amica della Giustizia, e neppure lei esiste.

Già perché la morale si forma all'interno di una cultura, che come si sa è regolata dalle leggi. Inutile tentare di scindere l'amalgama olistica che forma questo insieme. Il tutto che racchiude questi concetti è composto dal nucleo sociale, dalla tribù d'appartenenza che viene connotata da criteri ancestrali.

L'appartenenza dinastica è il trait-d'union atavico che permette agli uomini di riconoscersi e in assenza di questo si sono individuati surrogati efficaci come il branco, la tribù, la nazione.

Oggi però l'appartenenza è fluida, ci spostiamo dinamicamente tra gruppi diversi, occasionalmente in contrasto tra loro.

Lavoriamo per una grande azienda quando poco prima lavoravamo per la concorrente. Apparteniamo ad una nazione, ma siamo disposti a cambiarla sulla base di scelte di vita personali. Siamo in grado di voltare pagina in un attimo senza recriminazioni e giustificazioni di sorta.

Questo perché la diversità è ormai accettata.

Ed è diventata un valore aggiunto quando per secoli è stata considerata una colpa. La diversità però male si integra con l'uniformità valoriale che crea il gruppo. Inserendoci in un nuovo contesto sociale ci troviamo a vivere in un ambito in cui non siamo stati educati, non siamo perfettamente allineati e di cui spesso non comprendiamo i risvolti etici.


La giustizia non si può rintracciare, perché non esiste.

Normalmente ci fa comodo credere, come qualcuno crede a un Dio, che ci sia un'entità superiore che tutela la nostra salute e "libera nos a malo" obbedendo ad una pigra e fatalista invocazione che non manchiamo di formulare secondo le nostre esigenze.

Chi invoca Dio, quello sì incarnato per precauzione, o invoca la Giustizia assoluta, non fa altro che spostare all'esterno la responsabilità della decisione, così come chi si reca ai seggi per individuare un rappresentante da additare per ogni colpa.

Il capro espiatorio di ancestrale concezione è oggi concettualizzato, ma se non sacrifichiamo più un essere vivente alle forze della natura, sacrifichiamo la nostra volontà ai concetti, ignorando che non v'è altro dio al mondo se non la nostra capacità di agire.

giovedì 17 luglio 2014

Il potere della tecnologia intelligente

In questi ultimi anni la tecnologia informatica ha iniziato ad accelerare secondo la forma geometrica del progresso.

Il marketing e la popolarizzazione della tecnologia hanno però portato in auge ciò che si può far corrispondere al VHS del nuovo millennio, il touch screen


Appare chiaro che la strategia "alla Jobs" è quella di rendere sempre più popolare la sua invenzione, di rendere minimale quel suo sogno di ragazzo degli anni settanta.

Ognuno ha il proprio personal computer, anzi device

Non possiamo fare a meno di girare inebetiti con un uno smart-qualcosa per sopperire alla nostra sempre minore necessità di intelligenza; e mi ritornano alla mente le critiche che si narra Socrate muovesse alla scrittura per la sua capacità di limitare l'esercizio della memoria e quindi della cultura.

L'intelligenza artificiale pensa per quella umana?

Neppure per scherzo, le applicazioni informatiche, le apps, sono appunto qualcosa che viene applicata, non di certo qualcosa che agisce autonomamente.
La facilità di calcolo dei nuovi sistemi tascabili, non a caso i computer venivano chiamati calcolatori, rendono questa parvenza di intelligenza che in realtà non è altro che una lunghissima sequenza di operazioni il più delle volte elementari.

L'intelligenza sta nella scelta, come sempre.

E' realmente smart chi istruisce i calcolatori, chi sa interpretare o condurre le necessità e a tal fine crea algortmi logici che permettano semplificazioni materiali.
Ciò che realmente è cambiato non è il mondo o il modo di pensare, ma il numero di operazioni al minuto che si possono eseguire.
In pratica questa semplificazione tecnologica, questa idea che sia tutto più facile e immediato, non è altro che una estrema complicazione che sfugge alla nostra comprensione.

E così ci troviamo tecnologicamente avanzanti, a toccare schermi intelligenti mentre la scomparsa di menu di scelta non ci lascia che reazioni indotte come quelle di una scimmietta da laboratorio.
E' davvero questo ciò che immaginavamo dall'era della comunicazione?


venerdì 4 luglio 2014

Qualità marginale della vita

oppure della morte.

In questo periodo di rinnovamento dovuto all'impatto delle nuove teconologie informative, stiamo soffrendo dell'incapacità previsionale della politica "glocale", ovvero quella nazionale.

Sembra che nessuno si sia accorto della lottizzazione del Sistema paese avvenuta negli ultimi venti anni, di come grandi famiglie, ognuna con i propri contatti, si siano spartite le infrastrutture nazionali e abbiano goduto dei benefici del rientro dei soldi prelevati ai loro dipendenti attraverso le imposte.

Lo stato finanziava carrozzoni parastatali che non rispettavano le prescrizioni normative, creando una spirale di decrescita quasi circoscritta. Il controllo dell'informazione interna ha creato una sorta di sigillo, rotto soltanto dalla necessità internazionale di aderire alla UE.

Questo sistema iniziò a scricchiolare quando si entrò nell'euro, la una tantum di prodiana invenzione sembrò l'ultima chiamata alla credibilità.

Una chiamata che nessuno colse.

L'idea di aver preso il treno al volo riempì di euforia la nostra classe dirigente che continuò  a smembrare e lottizzare (Telecom Italia, Autostrade, Ferrovie) senza notare la piccola falla nel sigillo, quella Costituzione europea che in sordina venne approvata.
 Il giorno in cui approvammo il trattato di Lisbona e mettemmo in comune la nostra autorità, il resto dei nostri coinquilini pretese che tenessimo fede agli impegni e ancora oggi ce ne chiede conto.

Così, come se tutto fosse apparso di punto in bianco, oggi scopriamo che i treni arrivano in ritardo, che la corruzione di corte è dilagata intaccando le risorse e le infrastrutture del Paese.
I cortigiani si scoprono dei leccapiedi, i politici dei fantocci, i cittadini delle ottuse e inconsapevoli marionette conquistate con promesse di ricchezza, come i nativi americani allettati con specchietti e alcol.

E la qualità della vita è in calo marginale.

Quel tanto da disincentivare la rivoluzione, quel poco da sembrare passeggera. Sembra che la ripresa sia dietro l'angolo eppure la crisi dura da oltre vent'anni.
La politica locale fa promesse che non può mantenere, viviamo con una struttura sociale ancora troppo evoluta, gonfiata dalla Guerra fredda, alimentata dalla distrazione colpevole di chi non voleva vedere.

Se l'appetibilità marginale della vita cala, crescerà quella della morte. Una soluzione in natura c'è sempre. Andrà tutto bene e se non sarà così, andrà comunque e sempre nell'unico e miglior modo possibile.

giovedì 19 giugno 2014

La corruzione e felicità della competizione

La corruzione è certamente felicità, altrimenti non se ne capirebbe l'utilità.

Felicità indirette, poiché non penso che la violazione cosciente le norme giuridiche e sociali possa, salvo rari casi di soggetti antisociali, procurare da sola uno stato di euforia e benessere.
La felicità è data quindi dall'anticipazione del benessere che deriverà dal godere dei frutti della corruzione. Con i soldi in contanti che verranno corrisposti oppure gli utili indebitamente racimolati, daranno agi e benessere in quantità superiori alla competizione onesta e rispettosa delle regole.

La competizione

E' il motore delle attività umane, non è in genere tanto importante raggiungere il proprio obiettivo, quanto superare gli altri. E' fondamentale, nel contesto sociale essere i primi, i migliori, non già avere a sufficienza o migliorare continuamente sé stessi.

Il miglioramento continuo non è interessante, che gusto c'è a pensare che la felicità è nella competizione e non nel risultato? Perchè mi risuonano in mente le placide parole del Barone de Coubertin?

"L'ìimportante è partecipare"

La felicità della competizione, la partecipazione quale stimolo interiore, è però un aspetto che riguarda solo quei soggetti che abbiano raggiunto una sufficiente cognizione di sé, che siano abbastanza colti, piuttosto autocritici e soprattutto che abbiano ben chiaro cosa si aspettano di raggiungere e in che maniera
Non tutti sono disposti a vivere nell'inganno pur di ottenere benefici sociali.

La maggior parte delle persone neppure riesce a soddisfare sé stessa e passa la vita a rincorrere obiettivi esterni in genere posti da qualcuno che ha interesse che vengano, non raggiunti, bensì inseguiti.

E così la felicità diventa non già il piacere della competizione, bensì il raggiungimento di un traguardo che si sposta sempre, fino a sublimare in una vita oltre la vita, in qualcosa di intangibile e sperato che certifica l'assenza della felicità terrena, lasciando disperatamente alla ricerca di qualcosa che possa surrogarla nell'immediato.

La corruzione è la resa

Un timido tentativo di vincere prima dell'arrivo, un modo per anticipare il premio che però non considera le sanzioni, morali e giuridiche, della scorciatoia.
La vera felicità è nella competizione, nel piacere della competizione franca che nutre lo spirito dell'atleta, nell'onestà di sapersi campione non già per aver superato gli altri, ma per non aver tradito sé stesso.

La felicità non si compra, si costruisce con il sudore e l'onestà.

martedì 10 giugno 2014

Camminare

è sinonimo di numerosi concetti, di idee e di azioni.

In questo momento camminare non può che farmi pensare alle montagne italiche su cui occasionalmente poggio rispettosamente le suole degli scarponi, quei luoghi ameni e inospitali, sebbene resi più gradevoli dal passaggio dell'uomo nel corso dei millenni e rese troppo gradevoli dalle infrastrutture dell'ultimo secolo.

La conquista positiva della natura ha allettatto a lungo le società, l'esplorazione del mondo ha occupato l'immaginario collettivo e quando si è pensato che non ci sarebbe stato più nulla da scoprire su questa terra ci si è rivolti allo spazio

Soltanto di recente il genere umano a trovato interessante esplorare sé stesso.

E' certamente non ne ha conosciuto ancora a sufficienza. La cultura delle masse ha posto l'accento su quell'atomistica parte che ne è l'individuo. Eppure dalla notte dei tempi indomiti pensatori hanno scandagliato, ognuno con il proprio bagaglio culturale, la psiche umana e tentato di elaborare teorie.
Che la filosofia si sia manifestata poi in religioni e scuole di pensiero è storia, come i conflitti che ne sono generati, ma tutte avevano un comune denominatore

Il cammino quale metafora di vita

Simbolo universalmente condiviso dello scorrere del tempo, della caducità della vita, della precarietà delle nostre convinzioni. Il cammino è un percorso mutevole, un panorama sempre diverso, è qualcosa su cui non poter fare affidamento o basare le proprie certezze, quelle stesse certezze fondamentali al nostro cammino.

E così camminare diventa un'azione priva di significato, poiché pensiamo che la nostra vita sia statica che sia un monolite di roccia, quello stesso monolite che pesantemente trasciniamo con noi e che più diventa grande gravato dalle nostre certezze, più difficile diventa il nostro cammino

Non si può camminare con un fardello troppo grande

Si soccombe e ci si ferma. Si resta a guardare lo scorrere dello spazio-tempo aggrappati a quella pietra che non sappiamo lasciare, a costruire un mondo di certezze cognitive sempre più rigido, ad alimentare questo monolite con eoni di staticità.

Eppure la vita è un cammino affascinante, che soltanto chi sa abbandonarne i gravami può vivere appieno.
Citando il maestro Lao, posso dire che «dall'essere viene il possesso, dal non-essere l'utilità» così negli oggetti, così nella vita.

mercoledì 4 giugno 2014

Biologia della sintesi

la modernità, in sintesi.

Non possiamo identificare l'origine del nostro essere, in quanto troppo impegnati a sintetizzare, a riassumere a comprimere l'essenza per scoprire da dove veniamo e chi siamo, ammesso che possa ancora avere un senso porsi questo domande in un mondo non più positivista, in un'epoca di dubbi e surrealismo.
Viviamo in un mondo in cui i prodotti di sintesi sono ovunque e ci sembra normale vivere dei risultati della ricerca industriale novecentesca, la cui tecnologia ha permesso di realizzare in laboratorio prodotti ben più efficaci di quelli ottenuti dalla natura.

Non ci sono più soltanto prodotti, oggi abbiamo anche esseri sintetici.

La sintesi industriale ha trovato il proprio apice al termine del secolo breve con la genetica. Se dapprima si ricreavano oggetti, ingredienti, semplici elementi, ad un tratto si è iniziato a replicare esseri viventi.
La manipolazione genetica ha permesso di sintetizzare forme di vita mai viste prima, di rendere i pomodori più succosi e il grano più resistente, di replicare pecore e manipolare cellule staminali per fornire pezzi di ricambio in serie per esseri umani.

Abbiamo sintetizzato la vita.

Senza che neppure il Dr. Frankenstein se ne accorgesse, siamo andati ben oltre l'ideale romantico di quel personaggio letterario creato, sintetizzato forse, dalla penna della visionaria Lady Shelley. Ed è proprio attraverso quell'onirica rappresentazione della rinascita che possiamo immaginare come la sintesi arrivi alla comunicazione.

Nell'epoca della sintesi estrema, incontriamo l'estrema sintesi.

Oggi leggiamo estratti di notizie, sintesi di sintesi, sintesi al quadrato di informazioni irriconoscibili, dove non si esprime più l'oggetto, ma se ne richiama un aspetto non più lungo spesso di centoquarante caratteri. Un'informazione stroboscopica e abbagliante che non mostra che parti, momenti, frazioni e ci rende ciechi seppur vedenti.

La chimica pervade la conoscenza, diventa più semplice sapere che conoscere.

Se davvero oggi, nella frenesia sociale che comprime le nostre vite in pillole informative acritiche, è sufficiente credere di conoscere per sapere; se davvero oggi non è necessario imparare, a cosa serve il pensiero umano?
Forse la Sintesi è una nuova forma di vita, una specie post-umana la cui genesi è ormai avvenuta e che deciderà presto del destino della nostra specie, come noi abbiamo manipolato quello d'altre.

mercoledì 21 maggio 2014

Geometrie culturali

in un Paese senza guida.

Le geometrie culturali appaiono non già come frattali, bensì come le forme euclidee che troviamo nei giocattoli, ormai desueti, dei bebé.
Ricordiamo tutti quelle tavolozze di legno nei cui fori s'introducono forme colorate. Fare politica in un contesto rigido non è nulla più che tentare di creare soluzioni, rappresentate dai cubi, a problemi individuati dai fori nella tavolozza di legno.


E' il primo approccio concreto al problem solving. L'approccio infantile che stimolerà la nostra curiosità e influenzerà la nostra vita.

L'attuale classe politica italiana sembra più verosimilmente rappresentabile con quei bambini che, incapaci di individuare il giusto blocchetto. Piangono e si disperano nel vano tentativo di far passare il cubo rosso dove dovrebbe passare la piramidina gialla, oppure sorridono garruli mentre attuano la soluzione di comodo, facendo passare la sfera verde nel grande foro dedicato al troppo complicato dodecaedro.

Nessuna soluzione viene trovata con l'ignoranza

E' più facile che un problema sia risolto dal caso, piuttosto che dalla soluzione di comodo, è più facile lasciare che tutto scorra come l'acqua. Ma neppure in questo l'intellighenzia del Paese sembra essere abile.
La tradizione proscrittiva, la determinazione positivista di conoscere e governare gli eventi, rende ciechi d'innanzi all'ineluttabilità del fato.

I bambini giocosi che decidono non capiscono

che per cambiare forma al problema su cui stiamo lavorando ci vuole un falegname. Che non basta attribuire la colpa alla forma errata predisposta dal produttore del giocattolo, questo non farà altro che lasciare irrisolto il problema.
L'industria commerciale delle tavolette di legno non si interessa più da tempo delle esigenze di questo bambino. E' passato il tempo in cui era il nonno a costruire i nostri svaghi, ora giochiamo con quelli delle multinazionali, quelli preconfezionati e talvolta pensati per bambini più capaci di noi.

Basterebbe affrontare problemi diversi attraverso un diverso approccio.


La forma che una cultura dovrebbe avere è quella di un frattale.
La cultura dovrebbe trovare espressione nella replicabilità di un buon modello politico, nella ricerca di una soluzione semplice e variabile, utilizzabile infinite volte senza che questo metta in discussione l'autorità decisoria e anzi muti la forma del problema mentre lo risolve.

La società multiforme in dinamico divenire non ammette pause, non ammette incompetenze, non consente neppure d'imparare o di sapere. Accetta soltanto l'intelligenza che si adatta al cambiamento, che comprende la propria caduca fallacia e l'ignoranza dell'essere umano dinnanzi al cavolfiore*.


* il cavolfiore è un esempio di frattale ritrovabile in natura

venerdì 9 maggio 2014

Forma d'autore


L'autore non ha una forma, direte.

Eppure  io che da quindici anni vivo anche del diritto d'autore vi dico il contrario. Innanzi tutto sono qui a scriverne su un media non protetto, dove le mie parole potrebbero essere facilmente copiate, decontestualizzate e utilizzate perfino contro di me.

La forma dell'autore è quella in cui l'arte prende forma.

Il diritto d'autore è quello che infine appiattisce l'arte e ne lascia un vago sentore di mandorle amare. Avvelena l'aspetto artistico nel momento stesso in cui lo tutela.

Forse stiamo superando lo stato di diritto.

Entriamo in una nuova fase storica, abbiamo normato qualsiasi cosa e anzi attraverso enti specifici stiamo normalizzando tutto, creando norme per l'ortodossia della tecnica, le nostre icone quotidiane.
Il diritto normalizza, permette a tutti la chiara comprensione delle idee e l'espressione più ampia del sentimento di comunione e solidarietà.

Ma uccide l'arte.

Il diritto nell'arte riassume in sé i valori economici e politici, apre gli orizzonti non già all'artista più emozionante, bensì a quello che meglio sa commercializzare la propria immagine di produttore di pezzi unici.

La copia diventa quindi d'ostacolo.

Tralasciamo i copisti di dipinti che hanno storicamente avuto, in maniera più o meno lecita, il ruolo di diffusori della conoscenza e parliamo di altri mezzi. Parliamo di letteratura, musica, fotografia e cinema, che fondarono il loro successo proprio sulla diffusione. Chi non conosce Johann Guttenberg e la sua rivoluzionaria macchina a stampa, chi non conosce i fratelli Auguste e Louis Lumière che misero in movimento la fotografia.
Loro devono certamente il successo alla possibilità di replicare commercialmente i loro prodotti.

La copia è la fortuna dell'arte contemporanea.

E in questo secolo ne abbiamo testimonianza. La diffusione delle idee e dei contenuti è così capillare e veloce che diventa materialmente impossibile controllare l'origine.
Certo, il clouding ne è un ottimo tentativo, salvo che credo porterà non più alla duplicazione dei file, bensì alla duplicazione di intere banche dati.

La gente è disposta a pagare per le copie, un tempo gli autori più capaci erano anche più apprezzati, nell'etimologia economica del termine; pensiamo all'antichità, le opere che realizzavano venivano utilizzate per abbellire i muri degli edifici. Passando per il rinascimento anche gli edifici sono diventati sempre più oggetto del culto dell'arte. Apprezziamo la singolarità di un edificio non meno di quella di un quadro, o di una foto e non meno desideriamo averne copia.

I brevetti, il copyright, il diritto d'autore in generale.

Diventano sempre più emblema di un epoca che sta, almeno temporaneamente, tramontando. Forse non abbiamo ancora avuto modo di fare questa esperienza in cui non esiste tutela dell'autore.
La copia sfrenata, collegata alla veloce diffusione delle idee e quindi dei prodotti, consentirà a chi ha veramente idee innovative di emergere, consentirà a chi ha l'ardire commerciale di guadagnare, renderà tutto più frenetico etereo e democratico.
Forse il futurismo è nell'espressione del caos. Il futuro imprevedibile cancellerà magari il culto della persona o lo ridurrà ad una fugace esperienza, tanto da consacrare anarchicamente Andy Wahrol quale più grande filosofo della contemporaneità.

lunedì 28 aprile 2014

Nazionalisti nel mondo globale

In occasione delle elezioni europee, non è possibile ignorare come la paura del cambiamento stia generando, nelle persone meno adatte, un rigurgito nazionalista sincopato.

Sacco e Vanzetti.

Le loro vicende mi tornano alla mente ogni volta che leggo o sento commenti razzisti, ogni volta che vedo maltrattare extracomunitari la cui unica colpa sta nell'ignoranza.
La paura dello straniero affonda radici nella necessità della gente di blandirsi e cercare un colpevole diverso da sé stesso, incarnare il Diavolo per alleggerire la propria anima.

Il mondo però è globale

Poveri di ogni parte del pianeta si muovono agevolmente per sfuggire alla spazzatura e alla povertà, in cerca di un futuro migliore restano invischiati nelle maglie di un'economia i cui numeri sono cresciuti esponenzialmente.

La trasformazione culturale multietnica sta mietendo vittime ovunque. Nella necessità di favorire la comunicazione tra diverse etnie si è adottato lo stesso sistema tradizionale che rese grande la gente cinese un paio di migliaia di anni fa, Steve Jobs viene osannato quale guru della comunicazione per aver avviato un processo basato su ideogrammi.
Ciò che però non è stato considerato è che la scrittura a ideogrammi dev'essere accompagnata da profonde riflessioni filosofico-semantiche al fine di non limitare la comunicazione al segno, bensì elaborare significati articolati attraverso la combinazione e la contestualizzazione dei segni.
Se i francesi sono in grado di comprendersi pronunciando diverse parole nella stessa maniera, se gli inglesi possono attribuire significati diversi allo stesso lemma, se i cinesi possono sintetizzare concetti articolati in un simbolo, se tutto ciò è possibile è perché vi è dietro un profondo lavoro di interpretazione.

Semplificare è una procedura complessa

Non può essere fatta con leggerezza e superficialità. La nascita del formato mp3 (ancor prima forse la musica moderna), ha distrutto in un attimo il piacere di ascoltare buona musica, ha ridotto lo spazio occupato sul nostro hard disk consentendoci di conservare milioni di canzoni, nessuna delle quali di alta qualità
E così gli ideogrammi dei tablet, quelli che chiamiamo icone e si ricollegano alle cosiddette app, anche questa un'abbreviazione di application, ci permettono di semplificare, di visualizzare, di tradurre senza però considerare il significato, che del resto poco importa.

Il significato è una variabile

Da millenni cerchiamo di definire il significato delle cose senza poterci riuscire. Nietszche ci ha negato chiaramente ogni possibilità, dicendoci che tutto è vero solo nelle nostre interpretazioni, Freud, Jung che ha ripreso i classici orientali, tutti focalizzati sul significato; poi arrivano i tablet.
Di colpo tutto è omologato e il diverso ritorna sbagliato. In un'altalena di valori riviviamo il nazionalismo pre-bellico, quello che si era opposto convulsamente all'amalgama disequilibrata di popoli della Società delle nazioni e che aveva permesso la nascita delle Nazioni Unite nell'intento di creare un mondo globale.

Oggi le nazioni non sono unite

Tornano ad essere divise da prerogative ridicole, basate su simboli risibili e ignoranti del passato, mentre la capacità espressiva si disperde e si amalgama, mentre la lingua identitaria diventa un ostacolo nella comunicazione globale, andiamo a votare per l'Unione delle nazioni europee al grido nazionalistico di «siamo a casa nostra, che gli altri si adeguino».
La popolazione è schizofrenica, o forse solo ignorante. Chissà della cultura del passato cosa potrà restare, speriamo non solo l'odio per la diversità, speriamo che un lume possa sopravvivere.

martedì 22 aprile 2014

Cronaca di una morte annunciata

...quella di una cultura, che forse non è mai esistita.

Enel, dopo la campagna pubblicitaria 2013 (visibile qui) in cui elevava a guerriero ogni persona che svolga una vita assolutamente normale, anzi perfino banale, prosegue la propria campagna demagogico-speculativa passando in rassegna molti degli avvenimenti e dei personaggi rilevanti della storia italica, in un medley tra sacro e profano dove le invenzioni di Leonardo, si trovano accanto alla Dolce vita, dove il Colosseo è accostato agli spaghetti al dente, il Mondiale di calcio di Germania all'Impero romano (tutto quanto), i "Maestri dell'artigianato" al Rinascimento (tutto anche questo) e Raffaello, Michelangelo, Caravaggio, Pinocchio; esattamente in quest'ordine.




Uno spot abominevole che in ultimo sostiene che sia ora di guardare avanti, di costruire qualcosa di cui essere di nuovo fieri. Enel dimentica di dirci però chi siano quelli così orgogliosi del loro passato da non lavorare per il futuro.

Gli Italiani?

Quelli che fino a due decenni fa non sventolavano il tricolore perché era un atto fascista e che oggi in buona parte inneggiano al separatismo?
Quelli che hanno tutti un parente emigrato e odiano gli immigrati?
Quelli che ripudiano la guerra e mandano truppe armate in giro per il mondo?
Quelli nella cui Costituzione, come nel filmato Enel non vengono mai citati?

E così aggiugiamo un altro pezzo al puzzle della decadenza, dopo il premio Oscar al film "La grande bellezza" (dii cui al precedente post) e nell'attesa del sigillo sulla tomba di questa nazione, di questa società tentacolare che dal singolo attributo ricava una teoria, in cui godiamo perfino dell'orgoglio di appartenere ad una cultura decadente.

Riusciamo ad essere orgogliosi del nostro fallimento, e ignari ci presentiamo al resto del mondo come degli illustri falliti.

Fallito è il sistema economico, fallita è l'industria, fallito è il cinema, falliti sono tutti quelli che hanno pensato per decenni di poter vivere sulle spalle altrui.
Fallita è l'Italia dei guerrieri che combattono per un posto in metropolitana o che s'indignano per l'esclusione di un giocatore dalla nazionale.
Fallita è una cultura che si disperde al vento con la capacità linguistica dei suoi cittadini, sempre più ignoranti e sempre più attratti dagli ideogrammi che appaiono sul loro tablet.

La storia è nata dalla scrittura e con la scrittura finirà.

E così, nel meltin'pot di razze e culture che ha fatto grandi nazioni come la Greater Britain (no, non è un errore) o gli Stati Uniti d'America, riusciamo a prendere solo il peggio e abbandonare ogni residuo d'orgoglio per bearci della disfatta.
In questa guerra culturale, i barbari sono arrivati a Roma ancora una volta dal Nord, ma questa volta non portano arretratezza e distruzione, portano semplicemente la razionalizzazione weberiana e la società civile europea che certamente rifiuteremo.

martedì 8 aprile 2014

Il cucchiaio non esiste


E' questa la verità?

Nessuno ovviamente può saperlo, ma è certo che la verità vada cercata, pur con la consapevolezza di non volerla trovare.

La ricerca, la crescita intellettuale, superano la fisica e abbracciando la metafisica ci portano a comprendere ciò che apparentemente non esiste.
Ma se non esiste neppure il cucchiaio, se ciò che è tra le nostre mani ora, non è necessariamente reale, significa che neppure noi lo siamo.
Significa che la nostra vita va oltre la fisicità delle nostre pulsioni, dei nostri bisogni necessari.

Torniamo quindi alla sintesi di Descartes, il suo celeberrimo «cogito ergo sum»?

Ebbene sì, l'uomo è pensante e in quanto tale deve aspirare a superare il -qui ed ora- e abbracciare l'allegoria della vita come uno stimolo a superare la fisicità del mondo.
Essere parte del genere umano è quindi saper immaginare, sognare ad occhi aperti e non fermarsi alla risposta che ci viene fornita dai nostri sensi.

L'uomo elabora le sensazioni e ne restituisce al mondo una nuova visione, chi non riesce a farlo non può aspirare a definirsi tale, chi non sa pensare è mero strumento nelle mani di altri uomini.

In un mondo non reale, solo la capacità di pensiero rende realmente liberi.

giovedì 3 aprile 2014

L'etica del domani

Recentemente sono rimasto folgorato da queste parole di Freud:

«Ed è vero che l'etica, com'è facile riconoscere, tocca il punto dolente di ogni civiltà. Perciò va intesa come un esperimento terapeutico, come lo sforzo di raggiungere attraverso un imperativo del Super-io ciò che finora non fu raggiunto attraverso nessun altra opera civile.»

Sono il compendio di una riflessione interiore che mi arrovella da anni.

L'etica del passato, intesa come compendio di valori morali, è ancora valida? Sarà valida domani?
Sono sempre valide le riflessioni deontologiche, o è corretto riferire tutto ad un contesto pragmatico consequenziale che si limiti a valutare i risultati?

Dobbiamo definire regole in cui agire o limitarci alle decisioni del momento?

Forse che la società odierna stia semplicemente ridefinendo i presupposti su cui si fonda la propria etica e questo periodo di vacatio morale getti tutti nello sconcerto? L'accelerazione fornita dall'informatica a tale cambiamento, come peraltro ad ogni aspetto della vita moderna, è centrale. Il cambiamento sociale è ormai infra-generazionale. Il divario non è più tra genitori e figli, bensì tra il nostro essere di ieri e quello del giorno dopo.

Noi stessi mutiamo i valori etici più volte nel corso della vita. Siamo troppo veloci per essere coerenti.

E così il nostro stesso agire convulso e disordinato stritola la certezza del diritto e concetti come quello di nazione, distrugge i rapporti sociali con la stessa facilità con cui li fa nascere, ci impedisce di dedicare la nostra vita ad un obiettivo o un ideale, poiché sappiamo che diverrà obsoleto dopo poco tempo.

In un mondo in così veloce mutazione è sempre più difficile mantenere l'attenzione su un disegno di lungo periodo, ma così facendo tendiamo a distruggere ciò che stavamo costruendo un attimo prima.

Costruiamo castelli di carte senza un'apparente ragione e innalziamo monumenti alla vacuità nell'attimo in cui decidiamo di distruggerli e ricominciare.
La Metafisica ha tolto senso alla vita, la precarietà della condizione umana ha svalutato la collettività, privato di interesse alla continuità. Quella continuità che una volta si sarebbe trasformata in blasone, in tribù, in nazionalismo, oggi è niente; è un peso da portare.

Ripenso così all'immaginario freudiano in cui l'etica è esperimento di auto-miglioramento, un tentativo che, un secolo dopo, possiamo definire clamorosamente fallito, trasformato in un progetto di demolizione sociale e di riduzione alla barbarie.
Una mutazione prevista anni fa da Alessandro Baricco che la definisce «uno smantellamento sistemico di tutto l'armamentario mentale ereditato della cultura ottocentesca, romantica e borghese». Ciò che Baricco non aveva previsto era però il soggetto della mutazione. L'impressione che ne ebbe l'autore fu quella di un'invasione, di un conflitto sociale, mentre in realtà i nuovi valori che ancora non si sono chiariti sono già qui, sono intrisi nel tessuto sociale e si stanno definendo, ci stanno ridefinendo poiché siamo parte della società in cambiamento.

E quelli che pensano ancora all'ideale, alla giustizia in quanto principio, alla società quale paradiso collettivo, sono gli ultimi dei romantici. Siamo gli irriducibili amanti di un insieme di valori che si stanno estinguendo in attesa dell'etica del domani.

giovedì 20 marzo 2014

La società degli egoisti

Pubblicare sé stessi, recensire sé stessi, lodare sé stessi per poter vivere in mezzo agli altri. Non notate l'ossimoro?

Si è sempre pensato, ci è stato così insegnato, che per vivere insieme agli altri è necessario rispettare regole comuni.
I grandi filosofi del giusnaturalismo, Immanuel Kant über alles, come potrebbero convenire che la società si esprima invece con elementi seflish, ovvero egoistici e personalistici?

Quando abbiamo cambiato i parametri della società? La risposta è: "Mai".
Abbiamo soltanto smesso di prenderci cura delle regole e del vivere collettivo.

La nascita di modelli virtuali di società ha spersonalizzato i contesti, a reso trasversali ed eterei i momenti di aggregazione, fino ad escludere la componente collettiva dalla quotidianità.
Ma non è pur vero che viviamo in un contesto reale? Possiamo vivere a contatto con altri esseri pur senza curarci minimamente di loro?
Rispetto alla tradizionale aggregazione fisica fornitaci dalle religioni e dalla politica, dalla collettività "pre-informatica", dobbiamo oggi accettare la liquidità della comunicazione e la conseguente disgregazione sociale.
Dobbiamo scorporare, nel vero senso della parola, la nostra capacità sociale, pur non dimenticando che abbiamo un'esistenza corporale da tutelare.

Come può venire accettato che la socializzazione passi attraverso comportamenti asociali se non addirittura antisociali?

A frequentare persone d'oggi, si possono individuare comportamenti di accesa militanza accostati al totale disinteresse alla radicalizzazione della stessa.
I giovani, così come gli adulti che non hanno avuto un  particolare percorso di crescita interiore, sono disposti a difendere a spada tratta idee e gruppi che probabilmente lasceranno in capo a poco tempo e da cui si distaccheranno fino anche a rinnegarne l'appartenenza.

Questa transitorietà assoluta dei rapporti sociali è compatibile con una società creata attraverso la secolarizzazione della collettività locale?

Qual'è la soluzione innovativa che permetterà l'aggregazione virtuale e il rispetto dei valori collettivi?
Di certo la società non si consoliderà con la pubblicazione di sé stessa, con l'uniformazione assoluta dei modelli fino all'annientamento degli stessi, oppure con la loro eliminazione fino all'individualismo totale.

Devono esistere modelli di riferimento, anche se oggi non appaiono ancora credibili.
La rinascita sociale passerà per aspri conflitti e per la ri-determinazione dei valori comuni.
Abbiamo oggi il privilegio di vivere una fase di transizione, di conoscere quel momento in cui, tra il diffuso egoismo, si pongono le basi dei nuovi valori intellettuali che saranno il sentiero su cui camminerà la nostra progenie.